domenica 21 ottobre 2007

Sono tutti un programma

Marco Cedolin

Si può amare Beppe Grillo oppure detestarlo, ma comunque la si pensi non si può negare che il V. Day dell’8 settembre scorso abbia percosso come una folgore sia il mondo politico che quello sindacale, innescando uno stato di fibrillazione senza paragoni. Tanto i partiti quanto i sindacati, per nulla turbati dagli strali del Grillo vendicatore, ma molto preoccupati dalla prospettiva di un’emorragia di voti e consensi, hanno tentato di reagire in qualche modo posti di fronte ad una novità tanto incomprensibile quanto inaccettabile.
Centinaia di migliaia d’italiani scesi in piazza a protestare, per la prima volta senza che un partito politico o un sindacato li avesse invitati a farlo.
Forse a causa del risentimento dovuto alla “lesa maestà”, o più probabilmente per porre rimedio al potenziale rischio di perdita della poltrona, partiti e sindacati si sono profusi in uno sforzo ciclopico che ha ingenerato un mese di ottobre dal clima politico tanto bizzarro, quanto neppure il global warming era finora riuscito a fare in campo meteorologico.
Obiettivo primario dell’operazione, legittimare in qualche maniera la propria esistenza e la bontà delle proprie scelte, attraverso un’illusione di partecipazione popolare che potesse porli al riparo da qualsiasi ragionevole critica.
Non è stato facile e le dinamiche della mistificazione hanno alcune volte rasentato il parossismo fino a scadere nel ridicolo, ma tutto sommato grazie alla cooperazione dei mentori della carta stampata e della TV si può affermare che la “terapia” abbia riscontrato un discreto successo.

I primi ad avere ricercato (o creato ad arte) un bagno di consenso popolare sono stati i sindacati confederati che hanno offerto una dimostrazione senza eguali di democrazia diretta, così diretta da avere indotto molti a pensare che quella direzione fosse volutamente imposta dall’alto, ma come sempre accade in questi casi si tratta certamente di male lingue. CGIL, CISL e UIL hanno indetto per il 9 e10 di ottobre un referendum avente per oggetto l’approvazione o il rifiuto del protocollo sul Welfare, da loro stessi sottoscritto oltre due mesi prima con il Governo e Confindustria.
Qualcuno avrebbe potuto considerare bizzarro che s’interpellassero i lavoratori in merito ad un accordo già firmato da tempo e ritenuto, come ribadito più volte, immodificabile, ma guai a sminuire una così grande consultazione democratica. Qualcuno (fra gli altri anche l’Onorevole Rizzo del PDCI) avrebbe potuto considerare non proprio corretto il fatto che oltre che nelle fabbriche si votasse praticamente dappertutto (anche in banchetti improvvisati nelle strade) senza alcun genere di controllo, facendo si che qualunque persona con molto tempo a disposizione potesse infilare nelle urne tante schede quante voleva, come ampiamente documentato attraverso molti filmati amatoriali.
Si tratta in fondo solamente di quisquilie, l’importante è stato il risultato finale dell’operazione, 5 milioni di votanti (o meglio di schede votate) il SI che ha stravinto all’80% come nelle previsioni e la trimurti sindacale stretta nell’abbraccio di milioni di lavoratori che legittimano un accordo impopolare e fortemente negativo che però diventa “intoccabile” in quanto democraticamente votato.

La seconda operazione mediatica, datata 13 ottobre, ha visto come protagonista un sempre più imbolsito Gianfranco Fini ed Alleanza Nazionale che hanno convocato a Roma 500.000 persone per protestare contro Romano Prodi, le tasse e la poca sicurezza. La manifestazione somigliava molto ad un revival sfocato e meno partecipato di quella dell’anno precedente contro la finanziaria, ma il risultato è stato comunque quello voluto. Dimostrare che i partiti di centrodestra sono comunque in grado di portare in piazza il “popolo delle libertà”, magari convogliando la protesta su pochi temi generalisti, magari senza alcuna proposta concreta che prescinda dal semplice attacco all’avversario, magari solo per coreografia, ma comunque in piazza, come e meglio dei seguaci di Beppe Grillo.

Le primarie del nuovo (nuovo?) Partito Democratico tenutesi il 14 ottobre hanno rappresentato lo stato dell’arte in fatto di mistificazione e costruzione di una realtà artefatta che sia funzionale a sancire decisioni già prese molto tempo prima seduti intorno ad un tavolo.
Walter Veltroni, l’uomo “nuovo” del panorama politico italiano che intende “sviluppare l’ambiente attraverso la crescita economica” e rappresenta meglio di chiunque altro il pensiero a stelle e strisce proposto come “made in Italy” è stato investito del titolo di leader del Partito Democratico (quello italiano) da un vero e proprio plebiscito popolare costruito anch’esso a tavolino.
Milioni di votanti a pagamento (beninteso erano loro a pagare un euro, non Veltroni che li pagava, almeno non tutti) hanno fatto code chilometriche attendendo per ore il proprio turno. Perché fossero tanti, ma proprio tanti, si è pensato bene di consentire il voto anche a coloro che nelle elezioni reali non ne hanno diritto e di evitare ogni controllo come nel caso del referendum sindacale. Alle 12 i promotori affermavano che si erano già recate a votare 800.000 persone, alle 17 i votanti erano diventati 1.500.000, dopo la conclusione della consultazione, alle 20, i votanti sono diventati per un qualche intervento magicale ben 3.500.000, il 75% dei quali ha entusiasticamente scelto Veltroni come proprio leader.
Numeri a parte, indispensabili per trasformare in successo una partecipazione popolare tutto sommato modesta, anche in questo caso il risultato ha mostrato una realtà virtuale nella quale i cittadini sono vicini al proprio partito, ne condividono le scelte a posteriori e partecipano alla vita politica scegliendo il proprio leader. Il tutto nell’alveo di una democrazia tanto virtuale quanto l’impianto stesso della commedia.

Ultimo atto quello di sabato 20 ottobre, forse il più controverso e per certi versi anche il più ridicolo. I partiti della cosiddetta sinistra radicale, non tutti perché i Verdi se ne sono tirati fuori, hanno convocato a Roma una manifestazione tanto oceanica nei numeri (chi dice 500.000 chi addirittura 1 milione di persone) quanto incomprensibile nell’assoluta incapacità da parte dei promotori di trasformarla in un qualcosa di senso compiuto.
Sicuramente si è trattato di una manifestazione della sinistra, ma questo è stato l’unico minimo comune denominatore della marcia. Molti si sono recati a Roma a manifestare contro l’operato del governo di Romano Prodi, molti altri a manifestare a favore del governo Prodi che però dovrebbe fare meglio e di più, moltissimi a protestare contro il precariato, altri a fare la conta per stabilire quale sia il patrimonio di partecipazione popolare per la futura “Cosa Rossa”, altri ancora a dire che Prodi deve iniziare a fare qualcosa di sinistra, dimenticando il fatto che Prodi è da sempre un democristiano e forse per questo fa il democristiano.

Sul palco e in mezzo alla gente, a riempire il vuoto lasciato dai Movimenti realmente attivi sul territorio (come il NO TAV e NO Dal Molin) che già in precedenza avevano affermato di avere altri programmi, si è salvato solamente l’anziano Ingrao, attorniato da molte personalità politiche che emergono soprattutto in ambiguità. Assenti i Ministri che hanno preferito defezionare, hanno tenuto banco i soliti Diliberto, Russo Spena e Giordano ormai abituati a combattere la precarietà e la guerra nelle piazze per poi sistematicamente avallarle quando si ritrovano seduti in Parlamento.
Un altro bagno di folla per ribadire che altri partiti politici possono contare sulla partecipazione popolare, come e meglio di Grillo.
Ma se davvero si voleva combattere la precarietà, perché non cogliere l’occasione per lanciare una raccolta firme finalizzata a promuovere un referendum per abrogare la legge Biagi? Probabilmente sarebbe stato politicamente scorretto e poco rispettoso verso Romano Prodi. Meglio sfilare senza un come e un perché, mette allegria e ci si ritrova in tanti.

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