giovedì 28 maggio 2009

Serraglio elettorale


Marco Cedolin
Tutto è grottesco nella corsa elettorale che si sta consumando sotto il sole di questa canicola prematura di fine maggio. Ad iniziare dal merito delle elezioni stesse, un parlamento europeo di cui al di là della facile mangeria si fatica assai ad evincere il senso e delle amministrazioni provinciali che a breve potrebbero ritrovarsi a non amministrare più nulla, se la soppressione delle province da tempo ventilata finirà per andare in porto.

Preso atto della scarsa salienza della consultazione, ciò che più risulta avvilente sono i toni ed i contenuti espressi dalla sarabanda dei partiti politici, con l’unica eccezione costituita dalle piccole formazioni politiche (di destra come di sinistra) che comunque sono già state deprivate a priori dal parlamento della possibilità di tramutare in rappresentanza politica i voti dei propri elettori.

I “partiti che contano” o sperano di contare stanno affrontando la campagna elettorale con lo stesso spirito con cui ci si da vita ad una sonora scazzottata al bar dello sport, in merito al contestato rigore della domenica. Lo sfrenato egotismo ed il diffuso malanimo, stanno producendo fra PD e PDL ed i piccoli partiti a loro satellizi, una serie infinita di risse verbali, attacchi alla persona e insulti gratuiti del tutto fini a sé stessi, funzionali solamente alla volontà comune di non entrare nel merito delle gravi problematiche che affliggono il paese e l’Europa tutta.
Neppure una parola riguardo al Trattato di Lisbona, alla perduta sovranità monetaria, all’Europa dei burocrati tesa ad annientare il valore aggiunto costituito dalle peculiarità delle comunità che si vorrebbero ogni giorno di più sradicate dai propri territori e dalle proprie tradizioni. Silenzio totale in merito all’Europa della precarietà, dove si cannibalizzano i diritti dei lavoratori, depauperando oltre mezzo secolo di conquiste sociali
Neppure una proposta concreta attraverso la quale affrontare la vera crisi (non l’ologramma della crisi finanziaria) di un modello di sviluppo prossimo a defungere, per effetto della quale nel corso dei prossimi anni sempre più ampi strati della popolazione si vedranno privati della possibilità di realizzare un reddito che possa consentire loro una sopravvivenza dignitosa, a dispetto di tutti i cabalisti a pagamento che pronosticano la fine della crisi senza essere in grado di produrre una sola ragione in virtù della quale l’ipotesi dovrebbe realizzarsi. Neppure un minimo cenno di autocritica per avere dato vita ad un processo di globalizzazione tanto insensato quanto controproducente, a solo beneficio dei profitti di banche e corporation. Nessuna volontà di procedere ad una riflessione in merito allo strapotere dell’oligarchia finanziaria, i cui risultati in termini di disoccupazione, povertà diffusa e progressivo annientamento dei diritti, iniziano a farsi sentire in maniera devastante.

I partiti che contano non gradiscono parlare di politica, trattandosi di temi troppo complessi all’interno dei quali è facile scivolare. Immaginate Antonio di Pietro che ha reclutato in tutta Italia una marea di candidati “sensibili ai problemi ambientali” alle prese con temi come l’incenerimento dei rifiuti, la cementificazione del territorio e le grandi opere di cui si è sempre fatto portatore. Immaginate la Lega Nord posta di fronte al tema del trattato di Lisbona che cozza violentemente con i presupposti che sono alla base della sua stessa nascita. Immaginate Franceschini che oggi domanda finanziamenti a pioggia per i disoccupati, ma in due anni di governo si è guardato bene dal destinare loro un solo euro. Immaginate lo stesso Berlusconi chiamato a sostanziare le ragioni per cui i cittadini dovrebbero rimanere ottimisti di fronte alla chiusura generalizzata delle aziende e all’aumento della cassa integrazione di oltre il 300%. Per non parlare di SL di Nichi Vendola che ha reclutato all’interno della propria formazione politica perfino i Verdi in fase di dissoluzione, pur sostenendo apertamente il TAV, i rigassificatori e l’incenerimento dei rifiuti o dell’UDC di Casini/Caltagirone impegnato a sostenere la “famiglia” attraverso l’innalzamento dell’età pensionabile ed i valori cristiani per mezzo dell’aumento delle capacità militari europee.
Accantonata la politica che è scomoda e non fa chic, meglio allora fare proprio il modello “Amici” e “Buona Domenica”, dove la rissa verbale, l’insulto, la zuffa condita dai peggiori epiteti, conseguono un’ottima resa in termini di audience e se trasposti altrove possono rappresentare la falsariga di una campagna elettorale condotta unicamente “contro” l’avversario, senza l’ambizione di effondersi in alcuna proposta politica degna d’interesse. Ultimo esempio, ma solo in ordine di tempo, di quanto grottesca sia la classe politica italiana, lo ha reso ieri il leader pro tempore del PD Franceschini che impegnato ad attaccare Berlusconi, pur avendo migliaia di argomenti legittimi e concreti attraverso i quali poterlo fare, ha preferito le offese a livello familiare, con la conseguenza di ottenere una brutta figura e fare scendere ancora più in basso il livello questa già avvilente campagna elettorale.

venerdì 22 maggio 2009

Mostri di cemento nel mondo: la diga delle Tre Gole


Marco Cedolin
Pubblicato su Terranauta
Le grandi dighe rappresentano, forse meglio di qualsiasi altra faraonica infrastruttura, l’ambizione di dominio dell’uomo moderno che ha relegato la natura nel ruolo improprio di “nemico” da soggiogare, sconfiggere, umiliare a proprio piacimento. La costruzione di una grande diga implica sempre lo stravolgimento (tanto più intenso quanto più grande è l’opera) di vastissimi territori, la cui realtà verrà modificata in profondità dal punto di vista ambientale, economico, sociale e climatico, con risultati spesso catastrofici tanto nel breve quanto nel lungo periodo.

La diga delle Tre Gole che sorge nella provincia cinese dello Hubei e sbarra il flusso dello Yangtze (il grande fiume azzurro) è stata inaugurata nel mese di giugno 2006. Soprannominata “la Grande Muraglia” del terzo millennio è alta 185 metri (come la Torre Eiffel) e lunga quasi 2,5 km, una volta a regime nel 2009 le sue 26 megaturbine produrranno 84,7 miliardi di kilowattora ogni anno (l’equivalente di una ventina di centrali nucleari) e forniranno circa il 10% della richiesta energetica del paese.
I lavori per la costruzione della diga sono durati 13 anni e la struttura si rivela talmente immensa da essere una delle pochissime costruzioni dell’uomo visibili dallo spazio. Il costo dell’opera, è raddoppiato rispetto alle previsioni iniziali fino ad arrivare a 21 miliardi di euro e rischia di salire ancora prima che la struttura sia completamente funzionante.
L’invaso che formerà un vero e proprio mare nel centro della Cina, si estenderà per quasi 600 km ed occuperà 1084 kmq di superficie con una profondità dell’acqua prevista di 175 metri.

Oltre allo scopo primario consistente nella produzione di energia, la diga delle Tre Gole nelle intenzioni del governo cinese dovrebbe anche costituire un rimedio alle frequenti piene del fiume e contribuire a migliorare la navigazione dello stesso attraverso un complesso sistema di chiuse ed ascensori che consentirebbe il passaggio di navi fino a 10.000 tonnellate di stazza.

Valutare tutte le ricadute negative dal punto di vista socio/ambientale derivanti da un mostro di cemento armato di queste dimensioni è un’impresa oltremodo ardua tante sono le conseguenze della diga e del suo invaso su un territorio immenso e sulla vita di milioni di persone.
Lo Yangtze, terzo fiume del mondo con i suoi 7378 km di lunghezza, costituisce un bacino che accoglie il 12% dell’intera umanità e garantiva in passato il 70% dell’intero pescato cinese, mentre oggi questa percentuale si è più che dimezzata. A causa delle 46 dighe che ne costellano il corso e degli altissimi valori d’inquinamento (aumentati del 73% negli ultimi 50 anni) derivanti dalle centrali elettriche, dalle fabbriche alimentate a carbone e dalla frenetica navigazione, quello che veniva decantato come un “paradiso terrestre” ha ormai perso la maggior parte delle sue peculiarità. Sono scomparsi 800 laghi, l’85% delle foreste originarie non esiste più, le riserve di pesce sono diminuite del 75% e si sono creati problemi di potabilità dell’acqua in oltre 500 città.

L’organizzazione internazionale “Friends of the Earth” definisce quella delle Tre Gole come la diga più distruttiva della storia e analizzando le conseguenze presenti e future connesse all’opera non si fatica a comprendere il perché di un giudizio così negativo.
A causa della diga 1.200.000 persone sono state sfollate con la forza dalle loro case che ora giacciono sul fondo dell’invaso che ha sommerso 30.000 ettari di terreni coltivabili, ed altri 800.000 abitanti saranno costretti ad evacuare nel corso del prossimo anno quando il livello dell’acqua aumenterà ancora. Per consentire il progetto 1.500 villaggi e 75 città sono stati abbattuti e sommersi dall’acqua, insieme a 1300 importanti siti archeologici contenenti reperti vecchi di 6000 anni.
Un vero e proprio esodo sta sconvolgendo il cuore del continente cinese, gli sfollati in gran parte contadini hanno perso la propria casa ed il proprio lavoro, senza ricevere in cambio alcuna indennità e si ritrovano oggi preda della miseria. Ogni protesta è stata nel corso degli anni soffocata con la repressione, molti contestatori fra i quali la giornalista Dai Qing sono stati imprigionati con l’accusa di propaganda sovversiva.

Oltre alle questioni di ordine sociale che riguardano il futuro di milioni di sfollati, la diga delle Tre Gole ingenera tutta una serie di problematiche dal punto di vista ambientale e della sicurezza che seppure sottaciute dal governo cinese meritano di essere messe in evidenza.
A causa della frammentazione di un intero ecosistema il rischio di estinzione per moltissime specie sia animali che vegetali, alcune delle quali uniche, è altissimo in una zona della terra ricca come poche altre di biodiversità.
Un problema di grossa rilevanza sarà costituito dall’accumulo di una parte dei 530 milioni di tonnellate di sabbia e rocce che annualmente scorrono attraverso le Tre gole. Tale accumulo sotto forma di fanghi rischierà di mettere a repentaglio sia la stabilità della diga che il corretto funzionamento delle turbine. Fino ad oggi non è stata prevista al riguardo alcuna contromisura volta a tenere sotto controllo i rischi.
Nel fiume Yangtze vengono inoltre riversati senza che esista alcun tipo di controllo gli scarichi di decine di città, migliaia di fabbriche e milioni di abitazioni, composti da migliaia di tonnellate di sostanze tossiche ed inquinanti. La diga rallentando il corso del fiume favorirà l’accumulo dei rifiuti e delle sostanze altamente nocive, trasformando in breve tempo l’intero bacino in una vera e propria fogna a cielo aperto emanante miasmi venefici con il rischio che si determinino devastanti epidemie.
Le enormi proporzioni del bacino che si verrà a creare, equivalenti in tutto e per tutto a quelle di un vero e proprio “mare” determineranno secondo gli esperti uno stravolgimento climatico dell’intera area. Le temperature stagionali saranno più basse d’estate e più alte d’inverno di almeno 2 gradi e cambierà il regime delle precipitazioni con conseguenze rilevanti e imprevedibili sull’equilibrio dell’intero ecosistema.

Estremamente allarmanti sono i problemi di origine geologica connessi al fatto che la diga è collocata sopra ad una faglia ed è pertanto soggetta ad un grave rischio sismico. Rischio che potrebbe essere amplificato dall’enorme peso dell’invaso che secondo gli esperti sismologici sarebbe in grado di alterare gli equilibri geostatici dell’intera regione, aumentando il pericolo di devastanti terremoti. Un primo segnale in questo senso potrebbe essere rappresentato dalla scossa di grado Richter 5,7 che ha colpito la regione dello Jiangxi il 20 novembre del 2005 causando 15 vittime e la distruzione di migliaia di case.
La conformazione geofisica del bacino presenta inoltre molte similitudini con la tristemente nota area del Vajont, essendo composta da roccia calcarea disseminata di cavità contenenti argilla. Secondo le parole del botanico cinese Hou Xueyu l’area di riempimento sarebbe soggetta a frequenti frane e valanghe di fango e oltre 214 punti si rivelerebbero potenzialmente pericolosi. Il geologo Fan Xiao, dopo aver effettuato un sopralluogo ha evidenziato la pericolosità della frana di Shuping, costituita da 23 milioni di metri cubi di terra e rocce che rischiano di abbattersi a monte della diga sulla sponda sud.
La diga delle Tre Gole (che già al momento dell’inaugurazione presentava allarmanti fessure nella struttura) ed il suo immenso bacino hanno dimensioni talmente imponenti da far si che l’eventualità di un suo crollo per effetto di un cataclisma naturale, di un attacco militare o terroristico o di un cedimento strutturale, causerebbe un’ecatombe di proporzioni gigantesche, superiori a quelle di un bombardamento nucleare, in grado di portare alla morte oltre 100 milioni di persone secondo un’analisi dell’intelligence americana.Tale pericolo appare tanto più drammatico e tangibile se pensiamo che in Cina dal 1949 ad oggi sono già crollate ben 3000 dighe (62 nel corso del solo 1975) causando la morte di 250.000 persone.

mercoledì 20 maggio 2009

Abruzzo: riserve di indigeni nelle "new town"


Nicoletta Forcheri
Al momento di pubblicare la notizia di Marco Cedolin, apprendo dai TG che stanno effettuando gli espropri di terreni agricoli nelle periferie dei borghi terremotati di Abruzzo. Ogni qualvolta che sento la parola “esproprio”, trasecolo, un fremito mi percorre all’idea delle sofferenze di chi viene strappato dalla propria terra, dal suo orticello, dal suo pezzo di identità, come se gli strappassero un pezzo di sé, e non posso non pensare alla violenza inaudita inferta ai palestinesi, tutte le volte che si sradicano i loro ulivi, piante secolari essenziali per la loro identità culturale.

I paesaggi e i borghi fanno parte della nostra identità, vengono introiettati nella nostra coscienza, e contengono riferimenti identitari, punti di ristoro, momenti di tregua, purtroppo anche disturbi laddove recano ferite aperte, ma più spesso ricordi, cui sono legate le nostre personali emozioni, o quando assurgono valori simbolici, i nostri sentimenti comuni di appartenenza di popolo, di paese, di tribù. I paesaggi e i territori, sui quali hanno sudato i nostri avi per renderli coltivabili, per arrestarne gli smottamenti con terrazze, per ricostruirli dopo i terremoti, trasudano di energia atavica che ci racconta e ci nutre - ci tramanda - per chi volesse recepirla, la nostra stessa storia, da dove noi veniamo. Non solo, essi ci indicano anche la strada, il filo di arianna, la bussola per orientarci in un futuro che ci invade, violento, come un mare in burrasca. In quei pezzi di paesaggio intonsi risiede la chiave, lì possiamo dipanare la matassa, lì possiamo cogliere tesori di sapere, lì giacciono risorse per nutrirci, lì il nostro specchio per sapere chi siamo, lì la nostra strada per sapere dove e come ci andiamo. In quelle magiche intricate piantine dei nostri borghi, e delle nostre città storiche, tutta l’arte di vivere e di convivere dei nostri nonni, la loro stupenda funzionalità, la loro semplice ingeniosità. Lì tutte le nostre ricchezze e i nostri ori - che altri non ce ne sono.

Quando sento quella infausta parola, non riesco ad allontare dalla mente quella mia persistente visione di un popolo, il nostro, spostato in campi profughi, container, camper o in squallide periferie di palazzoni tipo HLM, con strade larghe, private di verde, di negozi, di piazzetta, di fontana, di sagrato della chiesa, private del buio e delle stelle. Private del cielo blu. Cielo grigio di scie chimiche. Telecamere in ogni angolo. Privacy come gruviera. Nessun salotto cittadino. Nessun giardino. Nessuna fierezza. Solo una squallida prigione di cemento dove l’umano diventa alieno, si estranea, e il tessuto sociale si sfalda. Tutti debitori, tutti incasellati - persino le aiuole - in squallide statistiche attuariali.
E non posso non chiedermi come mai non sia più affermato chiaro l’impegno di ristrutturare tutte le case dei centri storici. E non posso non pensare alla colonizzazione dei centri storici e alla cessione di interi borghi a qualche riccastro saccheggiatore del pianeta o a qualche tour operator - come sta avvenendo in tutta Italia. Grazie allo sfratto degli indigeni nelle nuove riserve di indiani chiamate “new town”.

lunedì 18 maggio 2009

Fa male l'acqua del rubinetto?


Marco Cedolin
Pubblicato su Terranauta

I risultati delle analisi compiute dall’Università di Napoli Federico II, sulla qualità dell’acqua che esce dai rubinetti delle case degli italiani, sono senza dubbio tali da destare un certo allarme ed imporre tutta una serie di riflessioni.
Stando alle parole di Massimiliano Imperato che ha coordinato lo studio nel quale è stata analizzata l’acqua che esce dai rubinetti (circa 20 abitazioni campione per città) in 50 città italiane facenti parte di 17 regioni, fra cui grandi centri come Milano, Torino, Napoli, Roma, Venezia, Bari, Grosseto, Firenze, Pavia, Vercelli, Novara, Bolo­gna, Genova, circa il 25% dei campioni prelevati mostrano inquinamento di natura chimica e microbiologica.
Gli elementi di contaminazione chimica sono costituiti per la maggior parte da trialometani (cloroformio) e da composti organoalogenati (trielina ed altri) che risultano essere sottoprodotti della clorazione dell’acqua, ma sono state riscontrate anche tracce di sostanze medicinali quali antibiotici, ansiolitici, an­ti- infiammatori che hanno evidentemente superato i depuratori . Mentre i contaminanti di origine microbiologica risultano essere per lo più colibatteri.

Se le conseguenze sulla salute umana determinate dalla presenza dei colibatteri preoccupano relativamente poco, altrettanto non si può dire degli agenti chimici e dei composti che possono venirsi a creare attraverso l’interazione di vari elementi. In questo caso infatti, soprattutto a fronte di un’assunzione prolungata dell’acqua contaminata, può aumentare il rischio di cancro alla prostata, ala vescica e al retto e verificarsi una tossicità a carico del fegato e dei reni.

I risultati delle analisi dell’Università di Napoli ingenerano senza dubbio una certa confusione all’interno della galassia ambientalista, da tempo impegnata ad incoraggiare anche negli asili e nelle scuole l’uso dell’acqua del rubinetto, per combattere “l’industria” delle acque minerali imbottigliate, che contribuisce pesantemente ad incrementare l’inquinamento (imbottigliamento, trasporto ecc.) e la produzione di rifiuti sotto forma delle bottiglie di plastica. Viene spontaneo domandarsi se quello dato finora fosse un consiglio “giusto”, alla luce del fatto che l’acqua di alcuni rubinetti potrebbe risultare nociva per la salute.

Riguardo all’impatto ambientale ed al consumo di risorse indotto dall’industria dell’acqua imbottigliata non possono assolutamente esistere dubbi, ragione per cui è impossibile prescindere dall’incoraggiare, come fatto finora, l’utilizzo dell’acqua del rubinetto. I risultati delle analisi del Federico II devono però indurre con altrettanta fermezza a pretendere una capillare serie di controlli da effettuarsi (come suggerisce lo stesso Imperato) al rubinetto e non a monte, una revisione delle leggi concernenti le dosi minime di agenti inquinanti consentiti nell’acqua (in genere troppo permissive) e un generale ripensamento del modo in cui le acque spesso vengono depurate attraverso l’uso massiccio della clorazione. In sostanza la battaglia in favore dell’acqua del rubinetto non può prescindere da quella per garantire la sua qualità e su questo fronte finora si è fatto sicuramente troppo poco.

sabato 16 maggio 2009

L'Europa perde il Pil ma non il vizio


Marco Cedolin
I dati economici concernenti il primo trimestre del 2008 risultano essere ben più disastrosi di quanto non facessero supporre le previsioni degli esperti, e l’economia della zona euro precipita come mai prima d’ora dalla fine della seconda guerra mondiale.
Complessivamente nei primi tre mesi dell’anno il Pil europeo ha registrato un calo del 2,5 %. La Germania, da sempre considerata “locomotiva d’Europa”, ha perso nel primo trimestre 3,8 punti di Pil, l’Italia ha fatto segnare un pesantissimo –5,9%, In Spagna la discesa è stata del 2,9% e la Francia dopo 6 mesi di calo continuo è ufficialmente entrata in recessione con una diminuzione del Pil dell’1,2%.

L’Europa è in crisi e ad ogni nuovo trimestre le stime negative redatte in precedenza devono essere riviste al ribasso, mentre gli economisti ed i mestieranti della politica continuano a spostare più in là (fine 2009, inizio 2010, fine 2010) la data d’inizio della fantomatica ripresa che dovrebbe concretizzarsi in virtù di un qualche esercizio alchemico la cui origine resta sconosciuta.
L’ologramma della crisi finanziaria, utilizzato per tentare di raschiare il fondo di un barile ormai svuotato, attraverso sempre più ingenti trasfusioni di denaro pubblico, all’interno di un sistema bancario ben più tossico di quanto non lo siano i titoli ritenuti tali, sembra ormai prossimo a dissolversi. Scomparso l’ologramma non tarderà a palesarsi la vera crisi, quella del modello di sviluppo basato sulla crescita infinita e sull’incremento del Pil. Un modello di sviluppo che ha iniziato a disgregarsi, vittima della presunzione in esso contenuta, di potere crescere indefinitamente all’interno di un mondo finito che pone dei limiti fisici invalicabili.
Solo un folle potrebbe pensare sia possibile incrementare all’infinito il numero di automobili prodotte e vendute, di autostrade costruite, di barili di petrolio consumati, di terreni cementificati. Così come solo un folle tenterebbe di curare un malato di obesità, attraverso l’assunzione bulimica di cibo.

Nell’Europa della delocalizzazione industriale, della disoccupazione in crescita esponenziale e degli alchimisti finanziari, una classe dirigente fatta di burocrati privi di fantasia, ma pronti ad obbedire agli ordini dei propri padroni, continua a recitare un copione sgualcito e stantio. Un copione dove si promette la ripresa economica ormai prossima (2009? 2010? 2011?) da realizzarsi attraverso l’incremento della produzione, dei consumi e naturalmente del Pil, vera panacea che tutto guarisce come per incanto. Poco importa il fatto che il Pil e la crescita siano ormai solamente gli elementi di un modello di sviluppo in fase di disgregazione, del quale stiamo iniziando a pagare le conseguenze in maniera sempre più pesante. Così come poco importa l’evidenza in virtù della quale solamente cambiando radicalmente strada si potranno porre le basi per la “ripresa”di un’economia diversa da quella di rapina praticata fino ad oggi.
Crescita e Pil, dal 2010? Basta ripeterlo ogni mese come un mantra al borsino delle illusioni e va bene così.

giovedì 14 maggio 2009

Chi pagherà la ricostruzione in Abruzzo?

Marco Cedolin

Si stanno gradualmente spegnendo i riflettori dell’attenzione mediatica intorno ai terremotati d’Abruzzo. Si stanno spegnendo, dal momento che dopo avere costituito una passerella senza paragoni per faccendieri politici di ogni risma e colore, recatisi all’Aquila come tanti Re Magi a portare in dono “parole di solidarietà”, ora il tempo delle parole sembra essere terminato, mentre sta sopraggiungendo quello della ricostruzione, per realizzare la quale occorrono i denari che la politica della commozione televisiva non sembra avere alcuna intenzione di scucire.

Proprio in merito ai finanziamenti per ricostruire le case crollate e gravemente lesionate, la situazione si sta facendo ogni giorno che passa più surreale, con il governo impegnato in complessi esercizi di equilibrismo, volti a salvaguardare i risultati della campagna elettorale. Risultati che rischierebbero di venire compromessi qualora fosse chiaro a tutti che i cittadini abruzzesi si vedranno costretti a sovvenzionare la ricostruzione di tasca propria, attingendo ai propri risparmi o indebitandosi con le banche.

In un emendamento al decreto legge per L’Abruzzo il governo ha scritto che "il contributo è determinato in ogni caso in modo tale da coprire integralmente le spese occorrenti per la riparazione, la ricostruzione nello stesso comune, o l'acquisto di un alloggio equivalente che rispetti le misure antisismiche". Quanto basta per potere affermare trionfalmente in TV e sui giornali che lo Stato coprirà al 100% le spese di ricostruzione per i terremotati.
All’interno dello stesso emendamento si può però leggere che l’erogazione dei contributi funzionerà “anche con le modalità del credito di imposta e di finanziamenti agevolati". Ed ecco l’inghippo, probabilmente destinato a concretarsi dopo la chiusura delle urne, in virtù del quale i cittadini abruzzesi scopriranno di essere costretti a “tirare fuori” in prima persona la maggior parte dei denari necessari per ricostruire le loro abitazioni.

Immaginando un “contributo statale” di 150.000 euro (limite massimo fissato dal governo) questo sarà infatti ripartito con tutta probabilità in tre parti. Un acconto di 50.000 euro verrà anticipato realmente e costituirà l’unico contributo sul quale il disgraziato terremotato potrà effettivamente contare. Altri 50.000 euro verranno offerti sotto forma di credito d’imposta. Il terremotato potrà cioè scalarli man mano dalle tasse che dovrà pagare negli anni a venire, sempre che egli continui ad avere un lavoro e pertanto a percepire un reddito sul quale pagare le tasse.
Gli ultimi 50.000 verranno concessi per mezzo di un mutuo agevolato. Il terremotato potrà insomma farsi carico di un mutuo presso le banche, da restituire in prima persona, detraendo la rata del prestito dai suoi redditi futuri, sempre ovviamente che questi esistano.

I terremotati abruzzesi che possiedono sufficienti risorse finanziarie potranno insomma ricostruire le proprie case a loro spese, con un contributo dello Stato che andrà da uno a due terzi, a seconda del fatto che essi abbiano o meno la fortuna di continuare a percepire un reddito negli anni a venire. Quelli che non posseggono le risorse finanziarie, saranno destinati ad albergare a tempo indefinito nelle baracche, nelle tende o nelle cuccette delle carrozze ferroviarie dimesse, continuando a chiedersi come sia potuto accadere, dal momento che il governo aveva assicurato la copertura del 100% delle spese di ricostruzione, prima delle elezioni.

lunedì 11 maggio 2009

L'acqua di Napoli vietata ai militari USA

Marco Cedolin

Pubblicato su Terranauta


Stanno facendo discutere i risultati, resi noti una settimana fa, di uno studio sanitario commissionato dalla Marina statunitense di Napoli e realizzato nello corso del 2008. Le analisi messe in atto in 130 abitazioni, sparse su un’area di 395 miglia quadrate nelle province di Napoli e Caserta, hanno rilevato in 40 di esse un rischio definito “inaccettabile” a causa dell’elevata concentrazione (notevolmente superiore ai limiti consentiti) di “componenti organiche volatili”. Tali sostanze chimiche che evaporano a temperatura ambiente, sembrano essere penetrate all’interno delle abitazioni attraverso l’acqua (dei pozzi e degli acquedotti) e possono venire assorbite dall’uomo non solamente ingerendo l’acqua contaminata, ma anche per inalazione e per via cutanea.

Oltre alle componenti organiche volatili individuate in quantità preoccupanti, principale delle quali il tetracloroetene generalmente utilizzato nella produzione di solventi, le analisi hanno evidenziato anche la presenza generalizzata di arsenico che in alcuni casi nell’acqua ha superato di 180 volte i livelli limite. I pericoli per la salute umana, determinati dalla concentrazione dei composti chimici, sono potenzialmente molto elevati e vanno da un banale giramento di testa al danneggiamento dei tessuti epatici, renali e del sistema nervoso centrale, alla compromissione del sistema immunitario, alle malformazioni fetali, al rischio di patologie tumorali.

Le amministrazioni locali e le autorità sanitarie italiane, peraltro mai informate ufficialmente della cosa, non sembrano avere preso molto sul serio la questione e non hanno finora richiesto copia dei dati dell’indagine. Ben più seriamente al contrario sembra avere interpretato i risultati la Marina statunitense, che ha deciso l’avvio di una seconda analisi che terminerà a fine 2009 e andrà ad interessare altre 210 abitazioni occupate da personale statunitense in una vasta area che comprenderà sempre le province di Napoli e Caserta.Curiosamente la maggior parte delle inchieste concernenti lo stato di avvelenamento del suolo e dell’acqua in Campania continuano ad arrivare dall’estero. Già nel 2004 fu l’autorevole rivista The Lancet Oncology a definire “triangolo della morte” la zona compresa fra i comuni di Acerra, Nola e Marigliano, nell’ambito di un’inchiesta concernente l’altissima incidenza di patologie tumorali presente nel territorio, dopo due inchieste condotte dalla rivista Newsweek che avevano portato alla luce i devastanti effetti delle innumerevoli discariche illegali di rifiuti tossici presenti in loco. Adesso è la volta della Marina statunitense, mentre le autorità sanitarie italiane continuano a tacere.

venerdì 8 maggio 2009

La FIAT prepara chiusure e licenziamenti



Marco Cedolin
Dopo settimane durante le quali i media italiani hanno incensato senza posa le politiche commerciali del gruppo FIAT e l’azione del suo ad Sergio Marchionne, indomito cavaliere lanciato alla conquista della Chrysler e dell’Opel, sembra essere arrivata la prima doccia fredda concernente i progetti per il futuro dell’azienda torinese.
I quotidiani tedeschi hanno ieri reso noti alcuni dettagli del nuovo “progetto Fenice”, attraverso il quale la FIAT intenderebbe perfezionare l’acquisizione dell’Opel e contemporaneamente suggere qualche miliardo di sovvenzioni pubbliche anche in Germania, come in Italia sta facendo sistematicamente da oltre mezzo secolo. All’interno delle 46 pagine che compongono il nuovo piano viene dichiarata l’intenzione di procedere alla chiusura in tutta Europa di una decina di stabilimenti (come riportato sulla cartina) con conseguente licenziamento di almeno 10.000 lavoratori.
In Italia gli stabilimenti a rischio smantellamento dovrebbero essere tre, Termini Imerese in Sicilia, Pomigliano in Campania e la Pininfarina di S. Giorgio Canavese in Piemonte.

La classe politica e buona parte del mondo sindacale italiano, fino a ieri impegnati a tessere le lodi di Marchionne e dell’azienda da lui capitanata (e dagli italiani tutti finanziata) che stava contribuendo a rivalutare l’immagine del nostro paese nel mondo, hanno reagito alla notizia con un misto d’incredulità e stupore.
Il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola ha immediatamente scritto una lettera al presidente della Fiat Luca di Montezemolo e all'amministratore delegato Sergio Marchionne, chiedendo di tenere presente la centralità delle fabbriche italiane e si è premurato di domandare l’organizzazione di un incontro a breve termine, al quale saranno presenti anche le organizzazioni sindacali. Il segretario della Uilm Antonino Ragazzi ha affermato trattarsi di una notizia completamente infondata. Il segretario della Cisl Bonanni ha tuonato contro l’allarmismo che non aiuta a far crescere il settore auto in Europa. Il segretario della Fiom Rinaldini ha detto che un simile disegno porterebbe all’apertura di un pesante conflitto sociale. Il vicesindaco di Torino Tom Dealessandri ha garantito da parte sua che non c'è alcuna ipotesi di chiusura di Mirafiori, unica fabbrica automobilistica della Fiat al nord, ignorando evidentemente che nel piano si fa espresso riferimento alla Pininfarina di S.Giorgio Canavese che certo non è ubicata in meridione.

I maggiori quotidiani italiani hanno dato la notizia facendo riferimento unicamente al giornale economico tedesco Handelsbatt, all’interno del quale veniva imputata al piano di Marchionne la chiusura di 2 stabilimenti (uno al Nord e uno al Sud) in Italia, senza citare nella maniera più assoluta altre fonti di stampa tedesche, come il Frankfurter Allgemeine che offriva una panoramica più dettagliata degli stabilimenti oggetto della chiusura, con l’ausilio della cartina che compare in cima all’articolo. Naturalmente dopo aver plaudito a lungo “l’eroica” cavalcata di Marchionne, diventa assai difficile illustrarne le reali conseguenze che si manifesteranno sotto forma di soggetti assai poco epici quali serrate di stabilimenti e licenziamenti di lavoratori, ragione per cui risulta imperativo indorare la pillola molto lentamente.

mercoledì 6 maggio 2009

L'ONU chiede 7,8 milioni di danni ad Israele

Marco Cedolin

La notizia trova spazio su tutti i maggiori quotidiani europei, ma i giornali italiani, troppo impegnati a seguire le vicende coniugali del premier ormai divenute argomento fisso delle prime pagine, hanno evitato di farne menzione o si sono limitati a relegarla in qualche trafiletto.
L’ONU, come dichiarato in conferenza stampa da Ban Ki – moon, ha fatto pervenire ad Israele una richiesta di risarcimento di 7,8 milioni di euro, in seguito alla relazione della commissione che ha indagato in merito agli attacchi contro il personale e le strutture delle Nazioni Unite, compiuti dall’esercito israeliano durante l'operazione Piombo Fuso dello scorso inverno che ha causato la morte di oltre 1500 palestinesi.

Il risarcimento riguarda i bombardamenti (in alcuni casi con l’utilizzo del fosforo bianco) a Gaza da parte dell’esercito israeliano di 3 scuole, un ospedale e la sede delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Bombardamenti che hanno causato circa 50 morti e in merito ai quali la commissione d’indagine ha individuato gravi colpe dei militari israeliani che non avrebbero preso le necessarie precauzioni, né fatto gli sforzi necessari, volti a garantire il rispetto dell’inviolabilità delle Nazioni Unite e la protezione delle migliaia di civili che avevano cercato rifugio negli edifici dell’ONU.
La commissione ha inoltre domandato l’apertura di un’indagine riguardante eventuali violazioni del diritto internazionale, concernenti l’utilizzo del fosforo bianco in zone densamente popolate, da parte dell’esercito israeliano, sempre nel corso dell’offensiva su Gaza.

L’iniziativa dell’ONU è estremamente importante, in quanto suona come una condanna senza appello nei confronti dei massacri di civili palestinesi, compiuti dall’esercito israeliano nel corso dell’operazione Piombo Fuso. Dispiace constatare una volta di più come i grandi giornali italiani, soggiogati dalla lobby che li gestisce, non abbiano saputo cogliere l’importanza della notizia, ma si siano limitati a constatarne la “scomodità”, relegandola nel novero dell’informazione da sottacere per non incorrere nell’ira del padrone.

domenica 3 maggio 2009

Il lusso a Kabul


Marco Cedolin
Molti sicuramente ricorderanno Buskashì, il libro all’interno del quale Gino Strada raccontava i giorni dell’invasione americana dell’Afghanistan, ritrovandosi ad essere uno dei pochissimi testimoni occidentali ad avere assistito alla presa di Kabul.
Proprio negli ultimi capitoli di Buskashì, Gino Strada descriveva il nuovo volto della Kabul “liberata”, dove si moltiplicava la presenza delle ONG, (fuggite nelle settimane dei bombardamenti) dei grandi network televisivi, dei diplomatici e sedicenti tali, tutti con grandi disponibilità di denaro. “Centinaia di jeep nuove fiammanti fanno la spola fra i ministeri. L’aeroporto è ancora più trafficato del bazar, aerei ed elicotteri in continuazione volano così basso da far tremare i vetri”. Con queste parole Strada tentava di rendere il senso della situazione, aggiungendo che tutto lo staff dell’ospedale di Emergency era stato sfrattato dalla casa in affitto in cui viveva da tempo, poiché una ONG molto “ricca” aveva offerto 5000 dollari al mese contro i 300 pagati dal personale fino a quel momento.

Oggi, a molti anni di distanza da quei giorni, un articolo comparso sul quotidiano inglese The Indipendent offre un interessante spaccato sulla “realtà dorata” nella quale vive la nuova elite di Kabul, mentre in tutto l’Afghanistan stragi e massacri di civili continuano a susseguirsi senza sosta.
L’inchiesta del quotidiano inglese mette in evidenza come i consulenti stranieri a Kabul siano retribuiti sontuosamente con stipendi che vanno dai 250.000 ai 500.000 dollari l’anno, mentre la popolazione locale si dibatte nella miseria più nera. Al tempo stesso sottolinea il fatto che larga parte degli aiuti economici stanziati a livello mondiale in favore dell’Afghanistan in questi anni, anziché contribuire al sostegno del paese hanno finito per rimpinguare le casse delle società private occidentali e mantenere l’alto tenore di vita dei loro funzionari.
A questo riguardo è interessante notare come interi quartieri di Kabul siano stati ricostruiti in maniera sfarzosa per ospitare le sedi di ambasciate ed ONG occidentali, mentre il 77% dei cittadini afgani ancora oggi non ha accesso all’acqua potabile. Altissimi sono anche gli esborsi economici destinati a salvaguardare l’incolumità dei funzionari occidentali, dal momento che ogni abitazione deputata ad ospitarli è stata convertita in una vera e propria fortezza ed i loro spostamenti avvengono sotto scorta, molte volte con l’ausilio di mezzi blindati ed elicotteri. Le imprese occidentali deputate alla ricostruzione delle infrastrutture (molte delle quali statunitensi) continuano ad ottenere enormi profitti, incassando cifre molto superiori a quelle necessarie per eseguire i lavori, che vengono poi sub appaltati ad imprese afgane mal retribuite. Tutto ciò ha finora fatto si che il grande sforzo economico messo in atto dall’occidente per la ricostruzione, non si sia tradotto in una riduzione della disoccupazione fra i giovani afgani (come sarebbe stato auspicabile) indispensabile per evitare loro un futuro di guerriglia e feroce repressione militare, ma abbia semplicemente contribuito ad incrementare gli utili delle grandi imprese di costruzione occidentali.
Sfarzose ambasciate e lussuose sedi di ONG ed imprese private occidentali, con il loro corredo di guardie del corpo, jeep blindate nuove fiammanti ed hotel extralusso, alimentano il contrasto stridente fra il business dell’Occidente in Afghanistan e la penosa situazione nella quale la popolazione afgana continua ad essere costretta a vivere. Dopo 7 anni dalla “liberazione” oltre 25 milioni di afgani sono costretti a sopravvivere con meno di un dollaro al giorno, l’aspettativa di vita è di 45 anni, il tasso di alfabetizzazione risulta del 34% e oltre il 55% della popolazione vive senza elettricità, nonostante durante questi 7 anni un considerevole fiume di denaro pubblico abbia continuato a scorrere dai paesi occidentali in direzione Kabul. Senza dubbio non mancano gli elementi sui quali è imperativo riflettere.